Guida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione

Introduzione

 

Questa guida, che non intende essere esaustiva, è una risorsa fondamentale per chiunque scriva o parli di conservazione, cambiamenti climatici e protezione della natura.

L'evidenza scientifica dimostra che i popoli indigeni comprendono e gestiscono i loro ambienti meglio di chiunque altro: l'80% della biodiversità della Terra si trova nei loro territori! Per proteggere la biodiversità, quindi, il modo migliore è quello di rispettare i diritti territoriali dei popoli indigeni, i migliori conservazionisti.

Tuttavia, ancora oggi, esattamente come in epoca coloniale, il modello dominante di conservazione è quello della “Conservazione fortezza”, che prevede la creazione di Aree Protette militarizzate, in terre indigene, accessibili solo ai ricchi. Questa “conservazione” sta distruggendo la terra e la vita dei popoli indigeni. Ciò nonostante, è proprio lì che confluisce la maggior parte dei finanziamenti occidentali destinati alla protezione della natura.

Perché? Perché i miti che sostengono questo modello di conservazione permeano i testi scolastici, i media, i documentari sulla fauna selvatica, gli annunci pubblicitari delle ONG, ecc. Le immagini della “natura” con cui siamo cresciuti, e le parole che usiamo per descriverla, modellano il nostro modo di pensare, le nostre politiche e le nostre azioni.

Tendiamo a dare per scontato che queste parole e immagini corrispondano alla realtà, come se fossero neutre, oggettive o “scientifiche”. Ma non lo sono.

La conservazione ha una storia oscura che affonda le sue radici nel colonialismo, nella supremazia bianca, nell'ingiustizia sociale, nel furto di terre, nell'estrattivismo e nella violenza. Oggi, le principali organizzazioni della conservazione, come il World Wide Fund for Nature (WWF) e la Wildlife Conservation Society (WCS) non solo non hanno ancora messo in discussione questo passato, ma continuano a perpetuarlo. La conservazione è un'industria, un business che trasforma la natura in un bene di consumo, principalmente per gente bianca e ricca, spesso in “collaborazione con” (per esempio “prendendo soldi da”) grandi aziende inquinanti. Questo sistema è parte di un processo di mercificazione della natura, a cui viene assegnato un “valore” così che possa essere scambiata e generare profitti.

Ma la nostra “natura” è la casa d’altri. È il fondamento del loro modo di vivere, il luogo dei loro antenati, la fonte della maggior parte di ciò che li sostiene.

Quando scriviamo o parliamo di questioni ambientali, è fondamentale pensare alle parole e ai concetti che usiamo. La violenza e il furto di terra subiti da milioni di indigeni e da altre popolazioni locali nel nome della conservazione derivano in gran parte da questi assunti.

È tempo di decolonizzare la conservazione!

 

Definizione di alcuni concetti base

“Conservazione fortezza”

Il modello di conservazione più comune in Africa e Asia è conosciuto come “Conservazione fortezza”. Si chiama così perché si basa sulla violenza e sull’esclusione dei popoli indigeni e locali dalle loro terre, che vengono messi da parte con lo scopo specifico di proteggere la natura (vedi “Natura”). Questo modello tratta la natura come un’entità separata dagli esseri umani. Attraverso la “Conservazione fortezza”, molti popoli indigeni e altre comunità locali sono stati sfrattati dalle loro terre ancestrali e vengono picchiati, torturati, uccisi e abusati da guardie armate (vedi “Guardaparco”) se in quelle terre tentano di cacciare, celebrare i loro riti o raccogliere piante medicinali. Le agenzie della conservazione lo giustificano in base all’idea che gli “esseri umani” (ma in verità intendono i locali) costituiscono una minaccia per l’ambiente e che qualsiasi attività umana è incompatibile con la protezione della natura nonostante una grande abbondanza di prove dimostri che i popoli indigeni sono i migliori custodi del mondo naturale.

Paradossalmente, una volta istituiti una riserva faunistica o un parco nazionale, quegli stessi gruppi governativi o della conservazione che hanno sfrattato la popolazione locale vi incoraggiano poi il turismo, facilitano la caccia sportiva (la caccia da trofeo) o permettono il taglio del legno, le attività minerarie e altre estrazioni di risorse.

Conservazione coloniale

La “conservazione”, così come è praticata oggi, ha una storia oscura. Nel XIX secolo, gli Stati Uniti istituirono i primi parchi nazionali del mondo su terre sottratte ai Nativi Americani. I “padri” americani del movimento della conservazione (come John Muir) consideravano le terre indigene vuote o “selvagge” (vedi “Wilderness”), e i popoli indigeni che vi vivevano “arretrati” o “intrusi” (vedi “Esplorazione vs Intrusione”). In verità, molti parchi nazionali statunitensi sfrattarono proprio i popoli che avevano plasmato quei paesaggi tanto ricchi di vita selvatica, e li ridussero in poveri, senza terra. Molti eminenti conservazionisti, inoltre, abbracciavano le teorie razziste più estreme del tempo, come l'autore eugenetico Madison Grant, uno dei fondatori della Wildlife Conservation Society (WCS).

Questo modello di conservazione, fondato sul furto di terra ai danni di persone considerate troppo “primitive” o “inferiori” per prendersene cura, fu esportato in tutto il mondo durante l’espansione degli imperi coloniali, in particolare in Asia e Africa. Attraverso la creazione di “Aree Protette” (vedi “Aree Protette”), le élite coloniali esclusero le popolazioni locali dalle loro terre ancestrali e dalle risorse naturali da cui dipendevano, incolpando loro e le loro conoscenze (spesso tacciate come “superstizioni”) della distruzione ambientale che i colonialisti stessi stavano provocando. I ricchi cacciatori coloniali furono spesso centrali nella creazione di “riserve di caccia” che vietavano ai locali di cacciare per procacciarsi cibo nelle terre riservate alle élite coloniali e locali.

La conservazione è ancora oggi colonialista perché molte delle leggi e delle politiche ingiuste varate in epoca coloniale per la “protezione della natura” restano in vigore, incontrastate. E, cosa più importante, continua a basarsi sullo stesso pregiudizio razzista secondo cui non ci si può fidare che gli indigeni si prendano cura della propria terra e della fauna selvatica che vi vive, e sull’idea che questo compito possa essere svolto solo da ambientalisti e scienziati occidentali (o influenzati dall'Occidente). I suoi sostenitori continuano a trattare i custodi originari della terra come un “fastidio” da “affrontare”, invece che come esperti di biodiversità locale e partner cruciali nella tutela della natura. La “Conservazione fortezza”, come il colonialismo, impone i propri punti di vista e il proprio controllo sulla terra con la violenza militarizzata (vedi “Guardaparco”).

Le principali organizzazioni internazionali per la conservazione sono state avviate o patrocinate da potenti e influenti cacciatori coloniali (come Theodore Roosevelt e il Principe Filippo), e continuano a sostenere un approccio razzista alla conservazione che dipende da loro e dalla loro percezione della propria “competenza” (l’approccio “noi ne sappiamo di più”) invece che sulle comunità nelle cui terre si trova effettivamente la maggior parte della biodiversità.

Industria della Conservazione

La conservazione è un settore dell’economia sempre più importante in molti paesi. I parchi nazionali e le riserve faunistiche sono considerati un generatore vitale di entrate turistiche e di altro tipo. I progetti di compensazione di carbonio (vedi “Compensazione e crediti di carbonio”) sono un’altra rilevante fonte di profitto, di cui organizzazioni come il WWF stanno diventando sempre più spesso intermediari. Il WWF ha adottato un approccio alla conservazione basato sul mercato e ha piani commerciali per tutti i suoi progetti principali. Le grandi ONG che si occupano di conservazione, come WWF, WCS e The Nature Conservancy, operano come imprese (ad esempio, vendono prodotti, promuovono tour e vacanze o collaborano con compagnie del taglio del legno ecc.); la maggior parte di esse ha le stesse caratteristiche delle multinazionali. Questo è stato uno dei motivi per cui, nel 2017, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) accettò l’istanza presentata da Survival International contro le persecuzioni e gli abusi violenti perpetrati dai guardaparco (vedi “Guardaparco”) finanziati dal WWF contro il popolo Baka del Camerun. Di fatto, il WWF fu riconosciuto come un'impresa multinazionale assoggettabile alle Linee guida per le imprese multinazionali dell’OCSE.

Termini da decostruire

Le coppie di termini proposte qui di seguito sono razzializzate. A seconda delle persone a cui si riferiscono, vengono utilizzate parole diverse: relativamente positive o neutre per persone bianche e le loro attività, oppure negative o peggiorative se riferite ai popoli indigeni e ai Neri. Questa pratica dimostra quanto il linguaggio della conservazione sia radicato in convinzioni coloniali e razziste, e continui a perpetuarle.

Cacciagione vs Bushmeat

La carne d’animale selvatico è una delle principali fonti di proteine per molte popolazioni del mondo, nonché un elemento centrale della loro identità. L’uso del termine nell’ambito della conservazione ha un’accezione particolarmente razzista. Ad esempio, quando viene servita nei ristoranti europei, viene definita “selvaggina” o “cacciagione”, e viene decantata come pregiata specialità. Ma quando è consumata dagli Africani o dagli Asiatici è abitualmente chiamata “bushmeat” (carne di animali selvatici): una parola che invariabilmente porta con sé connotazioni negative e l’implicazione di esser frutto di “bracconaggio” (vedi “Caccia vs Bracconaggio”). Se cacciano animali selvatici per nutrire le proprie famiglie, molti Africani rischiano multe, pestaggi, detenzioni o anche peggio.

Questa connotazione razzista e negativa si estende anche al termine “wet market”, “mercato umido”, utilizzato per riferirsi alla vendita e al consumo di carne proveniente da specie selvatiche in Asia. Questo termine non viene mai usato per descrivere il consumo o la vendita di carne di selvaggina in Occidente.

Caccia vs Bracconaggio

Il termine “bracconaggio” è stato usato per criminalizzare lo stile di vita da cacciatori-raccoglitori di molti popoli indigeni e per impedire loro di cacciare per sfamare le loro famiglie e vivere in modo sostenibile nelle terre ancestrali. Pagando, i turisti facoltosi (la maggior parte dei quali bianchi) possono invece uccidere la fauna locale per sport, e definiscono questa attività “caccia”. In Africa, quindi, nei media e nella letteratura la distinzione tra la “caccia” accettabile e il “bracconaggio” criminale è definita dalla razza e dallo status economico. Inoltre, quando usa la parola “bracconaggio”, l'industria della conservazione non distingue tra coloro che cacciano per vivere in modo sostenibile e le reti internazionali illegali del commercio della fauna selvatica che in molti casi operano con la complicità delle autorità dei parchi, dei guardaparco e dei funzionari di alto livello. Vengono definiti entrambi bracconieri, ma sono realtà molto diverse. Questa narrazione fornisce una scusa per la militarizzazione della conservazione sul campo (vedi “Guardaparco”) nonostante le prove dimostrino che gli sforzi e il denaro investiti nella lotta al bracconaggio potrebbero essere spesi meglio e in modo più efficiente in progetti miranti a cambiare le abitudini dei consumatori, a ridurre la domanda e a risolvere le disuguaglianze, invece che nella militarizzazione.

Esplorazione vs Intrusione

Gli indigeni e la popolazione locale sono spesso descritti come intrusi quando accedono, per esempio con il loro bestiame, alle loro terre ancestrali dopo che sono state convertite in Aree Protette. Ma quando i turisti paganti fanno safari nella stessa terra, si parla di “esplorazioni”. Gli spazi della conservazione sono inquadrati come luoghi per turisti, che in molti casi sono la sola presenza umana tollerata. l termini “intrusione” o “sconfinare” in questo contesto non dovrebbero essere mai usati perché implicano che le popolazioni locali e indigene non appartengano a un’area che è invece la loro casa. Il termine “intrusione” viene utilizzato per razionalizzare e promuovere gli sfratti.

Allevatori vs Pastori

Entrambi i termini sono usati per riferirsi a persone che possiedono del bestiame, ma il termine “allevatore” è riservato alle persone bianche, mentre con “pastori” ci si riferisce ai popoli indigeni e ai Neri. In Kenya e in Sud Africa, gli “allevatori” (principalmente bianchi) sono generalmente proprietari di terre che vengono privatizzate e ricevono sussidi per fini di “conservazione”, mentre i “pastori” (solitamente Neri o indigeni) pascolano su terre comuni (raramente i loro diritti territoriali sono riconosciuti) e spesso sono messi in cattiva luce dai conservazionisti, dai media e dalle autorità. Gli “allevatori” si impegnano a “intensificare” l’allevamento, mentre i “pastori” neri sono accusati di “pascolo eccessivo” (over-grazing). Le leggi fondiarie, i diritti di proprietà e gli amministratori della terra hanno marginalizzato senza sosta i pastori e minato i loro mezzi di sostentamento. Le terre possedute dai “pastori” neri vengono quindi “messe da parte” (accaparrate) per essere destinate alla conservazione, mentre le terre di proprietà degli “allevatori” bianchi vengono celebrate così come sono, per il loro valore di conservazione.

“Viaggiatori” vs Nomadi

Nell’Africa orientale, la parola “viaggiatori” è utilizzata in senso positivo per descrivere persone – abitualmente turisti bianchi – con la libertà e il diritto di andare ovunque vogliano. “Nomade”, al contrario, è quasi sempre usato in senso dispregiativo da governi che vogliono mettere fine e addirittura criminalizzare gli stili di vita dei popoli pastori e cacciatori-raccoglitori. Qualificare tali popoli come “nomadi” implica che non appartengano a un’area e che quindi non ne abbiano diritto, il che è l’opposto della verità.

Molti programmi di conservazione mirano a sfrattare i pastori e i cacciatori raccoglitori dalle aree di “Conservazione fortezza” come le riserve faunistiche, e quindi a sedentarizzarli in qualche luogo. In questo modo, vengono costretti a forme più intensive di agricoltura e allevamento, e poiché perdono la possibilità vitale di muoversi stagionalmente a seconda delle piogge, la loro sicurezza alimentare si riduce così come la loro resilienza economica e climatica.

Coesistenza vs Conflitto esseri umani-fauna selvatica

Questa narrazione mostra il duplice standard dei progetti di conservazione: in Europa, per esempio, la gente può “coesistere” con la fauna selvatica, pertanto non c’è quasi nessuna restrizione nell’entrare o nel vivere nelle Aree Protette. In Africa e in Asia, invece, l’assunto ricorrente è quello che gli indigeni e gli altri popoli locali non sappiano coesistere con gli animali selvatici e che debbano essere sfrattati dalla loro terra, e i loro stili di vita vengono criminalizzati. Il “conflitto esseri umani-fauna selvatica” è spesso usato per descrivere due fatti apparentemente opposti, entrambi strumentali a giustificare le opinioni dei conservazionisti. Da un lato è un eufemismo utilizzato per celare il fatto che il cosiddetto “conflitto” non è una condizione naturale nella vita dei locali, bensì un problema prodotto dai conservazionisti stessi. Per esempio, quello che si verifica quando le popolazioni di fauna selvatica (specialmente elefanti, ma anche altri grandi mammiferi) crescono fuori controllo a causa delle strette misure di conservazione e quindi arrivano a distruggere le fattorie e i mezzi di sopravvivenza degli abitanti locali o addirittura uccidono delle persone. Dall’altro, i conservazionisti parlano di “conflitto esseri umani-fauna selvatica” anche per riferirsi a eventi che i popoli indigeni spesso considerano parte della loro vita quotidiana, come l’uccisione di una delle loro vacche da parte di un predatore. Questo “conflitto” viene allora usato per affermare che le comunità devono lasciare quelle terre perché la “natura” è un luogo pericoloso per loro (vedi “Natura”).

Cliché e concetti controversi

Ecco alcuni esempi di concetti problematici e fallaci che diventano ingannevoli e fuorvianti quando usati superficialmente o definiti inadeguatamente. Questi concetti richiedono un’attenzione speciale e una definizione precisa da parte di chi li utilizza.

Guardaparco

La “Conservazione fortezza” è tipicamente implementata brutalmente dagli agenti militari e paramilitari della conservazione, a volte in collaborazione con esercito e polizia. Di solito sono gli operativi sul campo che sfrattano, abusano e uccidono i popoli indigeni quando cercano di accedere alle terre ancestrali (per cibo, rituali o altri scopi). Sono ingannevolmente definiti come “guardaparco”, “ranger” o “ecoguardie”, ma sono spesso armati pesantemente. In molti casi hanno l’eccezionale licenza statale di commettere atti di violenza, comprese le uccisioni extragiudiziali attraverso le politiche dello “sparare a vista”, che consentono di sparare contro chiunque sia anche meramente sospettato di “bracconaggio” (vedi “Bracconaggio”). Altre modalità di applicazione della legge che normalmente sono disapprovate, come arresti arbitrari, torture, molestie, abusi sessuali ed espropriazioni, vengono quasi universalmente tollerate se condotte dai “guardaparco”, – e il tutto senza azioni giudiziarie adeguate, processi o diritto di risarcimento. Vengono lodati come “eroi” e “difensori ambientali” anche guardaparco con scioccanti precedenti di violazione dei diritti umani. Quando si parla di guardaparco, ranger o ecoguardie, è importante citare il contesto e i precedenti sul rispetto dei diritti umani nel parco in cui operano per evitare che le violenze vengano insabbiate.

Aree Protette

Qual è il significato di questa definizione nel contesto dei luoghi di cui stiamo parlando?

Non tutte le Aree Protette sono uguali. Un’Area Protetta in Kenya è molto diversa da un’Area Protetta in Italia o in Francia. In Europa, per esempio, non potrebbe essere istituito nessun parco nazionale senza tenere in considerazione i bisogni delle comunità locali, solitamente attraverso estese consultazioni, processi politici e previsioni di ricorsi legali e risarcimenti laddove insorgessero problemi. Le restrizioni a entrare o a vivere in queste Aree Protette sono di solito molto poche, o non ve ne sono. Generalmente, la loro direzione e gestione prevede il coinvolgimento degli interessi della comunità a livello strategico.

In Africa e in Asia, tuttavia, quasi nessun parco è mai stato coinvolto in adeguate consultazioni con le comunità (vedi “Consultazione”). Le Aree Protette di questo tipo sono abitualmente gestite da agenzie governative e ONG conservazioniste occidentali. Raramente le comunità hanno un ruolo nella loro gestione. I parchi sono tipicamente gestiti secondo il modello della “Conservazione fortezza”: gli indigeni e i locali vengono abusati, perseguitati e sfrattati con la forza, la coercizione o la corruzione.

Questi tipi di parchi quasi sempre escludono o limitano le attività umane, incluse quelle che i popoli indigeni fanno per nutrire le loro famiglie, come cacciare, coltivare orti, raccogliere e pescare. In Europa, i parchi nazionali devono tipicamente portare qualche beneficio agli abitanti locali, mentre in Africa e Asia hanno lo scopo di “proteggere” dalla popolazione locale e indigena.

Wilderness, natura vergine/selvaggia

Le terre indigene vengono spesso definite erroneamente “vergini”, “intatte” e “selvagge”, ovvero come “wilderness”. Gli ambienti naturali più famosi al mondo come lo Yellowstone, l'Amazzonia e il Serengeti sono le terre ancestrali di milioni di indigeni che per millenni li hanno plasmati, alimentati e protetti, e ne sono stati dipendenti. L’idea stessa di “wilderness”, nel senso di una natura intatta, non intaccata dagli esseri umani, è un mito coloniale: le terre furono ritratte come vuote in modo da potersene appropriare. Questo concetto è simile a quello di Terra nullius, l’artificio legale che gli invasori britannici usarono per giustificare la colonizzazione dell'Australia sul falso presupposto che la terra fosse priva di persone.

L’idea di “wilderness” trova le sue radici negli USA della fine del XIX secolo. L’abilità dei Nativi Americani nel creare paesaggi biodiversi nel corso di millenni fu espugnata e rimpiazzata dall’idea che sia stata la “natura” (e Dio) a creare le terre che i coloni bianchi erano ora chiamati a proteggere.

Quest’idea occidentale è razzista e tenta di invisibilizzare il ruolo giocato dai popoli indigeni nell’alimentare e gestire i propri territori, le regioni più biodiverse al mondo. La “wilderness” dipinge la terra solo come “natura” invece che come un paesaggio vissuto e gestito di cui le persone sono parte integrante fondamentale. Spesso i conservazionisti descrivono le foreste come intatte per poter continuare a istituire Aree Protette senza il consenso della popolazione locale (vedi “Consenso”), sostenendo che nessuno vive lì.

Natura

L’idea di “natura” come entità al di fuori e distinta dall’umanità, è un concetto cruciale per l’industria della Conservazione (vedi “Industria della Conservazione”). La separazione degli esseri umani dalla natura va contro la nostra stessa esperienza empirica, come i popoli indigeni sanno molto bene da generazioni. I popoli indigeni non si considerano separati dalla natura: spesso vedono gli animali selvatici come membri delle proprie famiglie, e esseri umani e natura come una cosa sola. Molti documenti accademici sottolineano che la “natura” non è qualcosa di oggettivo, ma un’idea incorporata in, e creata da, cultura e percezione. Quello che per una persona è “natura”, per un’altra è il suo orto, il suo campo, la sua fattoria, la sua farmacia o la sua cena!

Quello che molte persone nell’Occidente pensano sia “natura”, spesso è di fatto il risultato di millenni di modificazioni e arricchimenti dell’ambiente attraverso l’attività e la gestione della terra praticate dall’essere umano. La ricerca ha mostrato che sulla Terra sono pochissimi i luoghi che non siano stati pesantemente plasmati dall’attività umana, inclusi quelli tipicamente descritti come “wilderness” (vedi “Wilderness”), come le foreste pluviali e le savane africane.

Net-zero

“Net-zero” (Zero netto) non significa che una azienda non produce emissioni, e quando si usa questo concetto lo si dovrebbe chiarire. Questo termine è stato inventato per mascherare il fatto che le aziende inquinanti continuano a inquinare, ma stanno tipicamente comprando “crediti di carbonio” altrove (vedi “Compensazione e Crediti di carbonio”).

Questi crediti di carbonio provengono sempre più spesso dalle cosiddette “Soluzioni basate sulla natura” (vedi “NBS”), come la piantumazione di alberi e il “ripristino” di foreste o ecosistemi (vedi “Ripristino”).

Compensazione e crediti di carbonio

Alla base dei progetti di “compensazione” (“carbon offsetting”) c’è l’idea che aziende e governi responsabili di una certa quantità di emissioni di anidride carbonica possano finanziare altrove dei progetti che possano, in teoria, “catturare” un ammontare equivalente di carbonio o impedirne il rilascio. E possono farlo acquistando “compensazioni”, ovvero crediti di carbonio (“carbon credit”) nei relativi mercati. L’uso di questi termini induce a pensare che sia possibile “compensare” le emissioni, nonostante i problemi tecnici e scientifici siano molti. Inoltre, le compensazioni di carbonio permettono ai reali inquinatori di ripulire la loro immagine (“greenwashing”) senza dover fare nulla, in realtà, per ridurre le emissioni, e continuando addirittura a inquinare come sempre.

Attualmente, le principali modalità di compensazione di carbonio sono due. Entrambe sono inefficaci e pericolose per i popoli indigeni. Inoltre, deviano le risorse economiche disponibili, sottraendole ai reali sforzi per diminuire le emissioni da combustibili fossili. Molti di questi schemi sono oggi descritti come “Soluzioni Basate sulla Natura - NBS” (vedi “NBS”).

Progetti come i REDD+ (Riduzione delle Emissioni da Deforestazione e Degrado della Foresta nei paesi in via di sviluppo), che si suppone proteggano la foresta dalla deforestazione, generano crediti di carbonio che aziende e governi possono acquistare per compensare le loro emissioni. I popoli indigeni hanno ripetutamente espresso preoccupazione sui progetti REDD+. Il meccanismo infatti mette il cartellino del prezzo sulle loro terre e foreste, rischiando di alimentare ulteriori furti di terra. Una larga parte delle foreste del mondo coinvolte nei progetti REDD+ sono territori indigeni o di altre popolazioni locali. Questi progetti minano i loro stili di vita perché fanno perdere loro il controllo sulla propria terra.

Un altro modo per “catturare” quantità significative di carbonio sarebbe quello di piantare alberi. Ma, per fare soldi, molti progetti di compensazione optano per monocolture di alberi a crescita rapida, come l’eucalipto e l’acacia. La maggior parte di tali piantagioni viene tagliata nel giro di pochi anni per realizzare prodotti come carta e carbone, che rapidamente restituiscono all’atmosfera tutto il carbonio che avevano catturato – e anche di più. Inoltre, molte delle nuove monoculture sono più soggette agli incendi e, comunque, avrebbero bisogno di crescere per decenni prima di iniziare ad assorbire quantità significative di carbonio. Infine – e questo è forse il problema principale – sostituire gli ecosistemi preesistenti, come le praterie, con schemi di piantumazione di alberi distrugge la biodiversità locale presente (vedi “Riforestazione/Afforestazione”) e devasta i mezzi di sostentamento dei popoli indigeni e locali, che per la propria sopravvivenza dipendono dalle risorse naturali del territorio.

Soluzioni Basate sulla Natura (NBS)

Non esiste una definizione universale condivisa di questo concetto, pertanto, prima di usarlo occorre precisare il suo significato. Oggi tende a riferirsi all'uso di meccanismi come la piantumazione di alberi, il ripristino di habitat e la conservazione di foreste per assorbire CO2 atmosferica e adattarsi agli effetti dei cambiamenti climatici. Fu coniato intorno al 2010 da alcuni gruppi conservazionisti internazionali con l’intento di dimostrare che le Aree Protette che essi gestivano avevano il potenziale necessario per giocare un ruolo commercialmente prezioso nello stoccaggio del carbonio. Oggi viene utilizzato principalmente per rinominare il concetto controverso e fallimentare del REDD+ e per ripulire l’altrettanto fallimentare inganno delle “compensazioni di carbonio” (vedi “Compensazione e crediti di carbonio”).

Molte delle affermazioni sulla capacità delle NBS di mitigare i cambiamenti climatici non sono suffragate da prove scientifiche e sono anzi basate su documenti viziati e fraudolenti. I progetti NBS non affrontano le reali cause dei cambiamenti climatici, ovvero le emissioni generate dai combustibili fossili e lo sfruttamento delle risorse naturali per profitto trainati dal Nord globale. Inoltre, l’uso del termine raramente è accompagnato da spiegazioni su dove questi progetti NBS verranno condotti e su quali saranno le conseguenze per la popolazione locale. Per esempio, è stato dichiarato che le NBS possono contribuire per oltre un terzo alle soluzioni necessarie a contrastare i cambiamenti climatici entro il 2030. Ma piantare alberi per raggiungere anche solo la metà di questo potenziale richiederebbe un’area equivalente alle dimensioni dell’Australia: dov’è questa terra e cosa succederà alla gente che ci vive? I progetti di compensazione NBS sono spesso colonialismo del carbonio.

Provocheranno sfratti di massa, dannose restrizioni sull’uso della terra, accaparramenti di terra e fame ai danni di milioni di cacciatori raccoglitori e di allevatori, contadini e pescatori indigeni e non-indigeni, e senza nemmeno mettere un freno alla crisi climatica.

Uso sostenibile delle risorse

I popoli che utilizzano le risorse naturali su piccola scala (ad esempio che tagliano legna per farne carbone) si vedono vietare o criminalizzare i loro mezzi di sostentamento perché, erroneamente, vengono descritti come “arretrati” e “dannosi” per l’ambiente. D’altro canto, le attività delle grandi compagnie multinazionali del taglio del legno che collaborano con ONG della conservazione e che a volte operano all’interno e attorno ad Aree Protette vengono descritte come “gestione forestale sostenibile”. Possono persino ottenere certificazioni, per esempio dal Forest Stewardship Council (FSC), anche se uno dei motori della distruzione delle foreste è proprio l’industria. Accade anche perché le attività del taglio del legno – e le loro “certificazioni” – generano enormi profitti sia per le aziende multinazionali del legno sia per le ONG della Conservazione.

Sovrappopolazione

Il concetto di “sovrappopolazione” è ideologicamente e fondamentalmente razzista, specialmente se additato come una delle cause principali dei problemi ambientali al mondo. Questo termine è quasi sempre utilizzato in relazione alla crescita demografica della popolazione di colore in Africa e Asia (e non a quella della popolazione bianca).

Molto spesso è utilizzato per allontanare la colpa da coloro che sono maggiormente responsabili della crisi climatica e di biodiversità, e per criminalizzare invece coloro che vi contribuiscono di meno e tuttavia ne soffrono più crudelmente le conseguenze (i popoli indigeni e le altre comunità locali). La vera causa della perdita di biodiversità, dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici non è il numero crescente di persone nel Sud globale ma lo sfruttamento delle risorse per profitto e il sovra-consumo crescenti trainati dal Nord. Le narrative sul “siamo in troppi” possono avere conseguenze drammatiche: in diversi paesi, Stati Uniti inclusi, donne sia nere sia indigene sono state specificamente prese di mira per essere sottoposte a sterilizzazione forzata contro la loro volontà e persino senza esserne consapevoli. In Asia e Africa, il WWF ha gestito programmi di controllo delle nascite, sterilizzazione compresa, attraverso i suoi progetti “Population, Health and Environment” (Popolazione, salute e ambiente), sponsorizzati da Johnson & Johnson e USAID, sostenendo “Crediamo che questo approccio offra un considerevole potenziale per raggiungere risultati maggiori nella conservazione, in modo innovativo”.

Consultazione/Consenso Libero, Previo, Informato

Quando si tratta di progetti di conservazione che impattano sulle terre indigene, vediamo spesso ricorrere le parole “consultazione” e “partecipazione”. La consultazione e la partecipazione sono ovviamente importanti ma non bastano. La legge internazionale stabilisce che qualsiasi progetto da realizzarsi in territorio indigeno debba ottenere il Consenso libero, previo e informato dei popoli indigeni coinvolti (FPIC). Ciò significa che i popoli indigeni hanno anche il diritto di dire “no” a qualsivoglia progetto che coinvolga le loro terre, incluse le Aree Protette. Progetti che affermano di avere consultato la popolazione su cui impattano possono comunque essere illegali perché privi del consenso necessario. Ogni elemento del FPIC è essenziale – si pensi che ci sono casi di organizzazioni conservazioniste che cercano di ottenere il consenso anni dopo la creazione di un’Area Protetta, in cui le guardie hanno addirittura abusato ripetutamente della popolazione locale. In simili situazioni, nessun consenso potrà mai essere considerato come “libero” o “previo”. E anche laddove sia stato effettivamente ottenuto, il consenso non dovrebbe essere visto come un esercizio una tantum, ma come un processo continuo – libero, previo e informato – che garantisca alle comunità indigene il diritto di cambiare opinione sulle decisioni precedenti.

Trasferimento volontario

Un “trasferimento volontario” implica necessariamente che le persone abbiano dato il loro Consenso libero, previo e informato (vedi “Consultazione”) a lasciare le loro case, le loro terre e, spesso, i loro stili di vita per far posto a progetti di conservazione della natura. E questo è altamente improbabile, specialmente quando le comunità hanno un legame forte e sacro con le terre ancestrali. In realtà, la maggior parte dei cosiddetti “trasferimenti volontari” sono sfratti forzati imposti alle persone con minacce, persecuzioni o strumenti di corruzione per costringerle ad accettare di andarsene, spesso senza averle nemmeno informate di avere il diritto di dire “no”. In molti casi, i popoli indigeni “acconsentono” a trasferirsi perché i conservazionisti, i guardaparco violenti e i governi rendono loro la vita impossibile: non possono cacciare, non possono raccogliere i frutti della foresta, non possono costruire le loro case né andare a scuola, e vengono picchiati, abusati e incarcerati se cercano di farlo. Non c’è nulla di “volontario” in tutto questo. Per irretire la popolazione e indurla a lasciare le proprie case, talvolta vengono anche promessi risarcimenti, terre e servizi che però non si materializzano praticamente mai.

Prima di usare queste parole, occorre analizzare il contesto e riportare accuratamente quel che è successo nel territorio.

Ripristino

Il “ripristino ecologico” sta diventando un termine sempre più popolare specialmente per programmi che generano crediti di carbonio (vedi “Compensazione e crediti di carbonio”) o che operano per altri scopi sotto l’egida delle “Soluzioni Basate sulla Natura” (vedi “NBS”). Dato che la maggior parte degli ecosistemi della Terra sono stati a lungo modificati dall'essere umano, decidere a quale condizione e a quale epoca si dovrebbe riportare un ecosistema è quantomeno altamente controverso e arbitrario. Tuttavia, il punto importante è che i conservazionisti credono di poterlo e doverlo determinare, al di là delle condizioni ecologiche create dalle comunità locali nel tempo. È probabile che molti pascoli ritenuti degradati vengano “ripristinati” attraverso afforestazione per lo stoccaggio del carbonio (vedi “Riforestazione/ Afforestazione”) anche se non vi è prova che nella storia recente dell’area vi fosse copertura forestale permanente.

Esistono indubbiamente molti ecosistemi danneggiati che potrebbero essere recuperati, ma il termine può fornire un ulteriore pretesto per sfrattare, criminalizzare, sedentarizzare o attaccare in altri modi lo stile di vita dei popoli indigeni e le comunità locali. I pastori sono particolarmente demonizzati per presunto “pascolo eccessivo” (vedi “Allevatori vs Pastori”) nonostante i loro sistemi d’allevamento siano altamente adattabili, così da essere sostenibili. Coloro che praticano l’agricoltura a rotazione nelle foreste tropicali vengono accusati di “degradare” gli ecosistemi forestali. Questa forma di agricoltura, che può essere estremamente sostenibile, è quasi universalmente descritta dai conservazionisti con il termine peggiorativo “taglia e brucia”. Lo scopo del “ripristino” diventa così quello di impedire tali attività e di “riportare” l’ecosistema a uno stato che gli interessati esterni ritengono essere la sua condizione “naturale” (ovvero senza presenza umana). “Ripristino” è un termine che porta con sé ingiustizia perché presume che tutto ciò che esiste in situ (i popoli indigeni e i loro mezzi di sostentamento) sia un “problema”.

Riforestazione/Afforestazione

Si tende a credere che piantare gli alberi sia sempre una buona idea. Ma ci sarebbe sempre da chiedersi: che tipo di alberi? Dove saranno piantati? Perché e da chi?

“Afforestare” significa piantare alberi dove storicamente non ce ne sono mai stati, mentre “riforestare” significa piantarli dove in passato c’erano. Spesso, governi, compagnie minerarie e altre industrie distruttive parlano di “riforestazione” e “afforestazione” come di “soluzioni” che aiutano a mitigare i dannosi impatti delle loro attività e come di strumenti per raggiungere lo “zero netto” di emissioni di carbonio (vedi “Net-zero”).

Nella pratica, le operazioni di “riforestazione” e “afforestazione” possono essere utilizzate per giustificare la distruzione delle foreste e degli ecosistemi in un determinato luogo sulla base del presupposto che saranno “ricreati” altrove. È un problema per molteplici ragioni. Innanzitutto, la distruzione della foresta in un’area può avere un impatto permanente sullo stile di vita dei popoli indigeni e sulla loro relazione sacra e unica con la terra. Inoltre, un ecosistema che ha richiesto migliaia di anni di accurata gestione per svilupparsi in tutta la sua ricchezza di flora e fauna non può essere semplicemente “ricreato” altrove. “Riforestazione” e “afforestazione” possono anche essere usate come Soluzioni Basate sulla Natura (vedi “NBS”) permettendo alle aziende inquinanti di affermare falsamente che piantare una certa quantità di alberi può contribuire all’assorbimento delle loro emissioni di carbonio.

Oltre a tutto ciò, l’idea generale che piantare qualsiasi tipo di albero in qualunque tipo di terreno sia una buona idea è fortemente respinta dagli esperti di foreste e suolo. I progetti di “riforestazione” e “afforestazione” possono essere molto dannosi per la biodiversità di un’area, perché spesso consistono in monoculture, abitualmente non endemiche, che soppiantano la flora e la fauna native e non hanno nulla a che fare con l’ecosistema originale. Succede che vengano destinati a progetti di “afforestazione” anche savane e pascoli. Queste pratiche possono essere utilizzate per giustificare lo sfratto dei popoli indigeni dalle loro terre, che di conseguenza vengono considerate “vuote” e adatte alla piantumazione di alberi.

Ulteriori risorse sulla conservazione coloniale.

Fonti bibliografiche

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